Anche nell'ex Ilva di Taranto è scattata da ieri 30 marzo, per nove settimane, la cassa integrazione COVID-19. ArcelorMittal Italia l'ha chiesta per tutta la forza lavoro attuale, ossia 8.173 persone (5.626 operai, 1.677 impiegati e 870 equivalenti). Non significa tuttavia che l'intero organico rimarrà a casa, dal momento che lo stabilimento dovrà funzionare sulla base del decreto del prefetto di Taranto, che ha fissato un tetto massimo di 3.500 lavoratori diretti e 2.000 dell'appalto nelle 24 ore. Con le ultime disposizioni la produzione - che comunque fino al 3 aprile non potrà essere commercializzata - scenderà da 11.000 a circa 8.000 tonnellate giornaliere.
Nel frattempo, è scontro aperto tra ArcelorMittal e il Comune di Taranto. La multinazionale ha presentato nell'ultimo giorno utile il ricorso al TAR di Puglia contro l'ordinanza del 27 febbraio scorso con cui il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, imponeva ad ArcelorMittal e ad Ilva in AS di individuare e risolvere entro 30 giorni le cause delle emissioni derivanti dalla produzione dello stabilimento siderurgico. Ordinanza che prevede, in difetto di adempimento, di procedere nei successivi 30 giorni alla fermata dell'area caldo. Il ricorso, secondo il sindaco, rappresenta «38 pagine di accademia, senza una risposta sul tema della salute dei cittadini di Taranto. Eppure i giorni che stiamo vivendo dimostrano quanto la salute venga prima di ogni interesse economio. A Mittal - ha aggiunto - dico: non è con i ricorsi che avrete tregua, noi andremo avanti».