La nuova amministrazione degli Stati Uniti minaccia di ritirarsi dall’accordo Trans-Pacific Partnership (TPP) nel gennaio 2017. L’accordo avrebbe dovuto essere firmato nel novembre 2016, e ratificato nel corso dei prossimi due anni, ma l’imminente cambio del presidente USA ha suggerito all’amministrazione Obama di astenersi dal firmare e di passare quindi la decisione al Congresso.
L’accordo TPP è in corso dal 2008 e coinvolge Australia, Brunei Darussalam, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. Il TPP era considerato dall’amministrazione Obama come un accordo auspicabile, che avrebbe consentito di disciplinare i rapporti commerciali, rafforzandoli ed armonizzandoli, aumentando la stabilità, e diminuendo i costi per le aziende che avessero investito negli stati membri. Le parti interessate hanno dato particolare risalto all’importanza dei capitoli del TPP legati alla proprietà intellettuale, alle dogane ed all’agevolazione degli scambi, agli investimenti, alle barriere tecniche al commercio, agli standard sanitari e fitosanitari, ed alle imprese di proprietà statale.
Coloro che si oppongono all’accordo, tra cui il sindacato dei lavoratori statunitense, sottolineano invece quanto emerso dal report del maggio 2016 della International Trade Commission americana, in cui viene evidenziato che la produzione, le risorse naturali ed il settore energetico subirebbero un calo di 10,8 miliardi di dollari rispetto alle stime di base senza l’accordo. Altri punti a sfavore dell’accordo TPP sarebbero le regole di origine (ROO – rules of origin) sulle parti per auto al 45% anziché al 35%, insufficienti restrizioni alla manipolazione delle valute e la perdita di molti posti di lavoro.